Prospettiva familiare sui disturbi del comportamento alimentare
Dalla letteratura di stampo relazionale (Andolfi, 1977; Bruch, 1973, 1988; Caillè, Abrahamsen e altri, 1977; Elkaim, 1982; Haley, 1980; Liebman, Minuchin e Baker, 1974; Minuchin, 1974; Selvini Palazzoli, 1985; Selvini Palazzoli, Cirillo e altri, 1988) e dall’esperienza clinica emerge che le famiglie con un paziente con un disturbo alimentare all’apparenza si mostrano equilibrate e serene. Ma sotto questo stato di apparente felicità domestica, sostenuto in maniera molto rigida, si nasconde spesso una profonda insoddisfazione che viene più o meno negato dai diversi membri e il portatore del sintomo diviene l’unica fonte di preoccupazione esplicita. L’andamento familiare, una volta così prevedibile, inizia ad essere centrato sul paziente e sul sintomo e su essi si focalizza il controllo dei genitori. “Attraverso questa modalità comunicativa, totalmente focalizzata sul cibo, si giocano contenuti più intimi e centrati su questioni fondamentali quali potere, libertà e autonomia che, peraltro, non vengono mai espressi direttamente” (A. De Pascale, 1991).
Root, Fallon e Friedrich (1986) descrivono gli stili di queste famiglie parlando di famiglie “iperprotettive, caotiche o perfette”, a seconda di quale atteggiamento prevalga sugli altri. Talvolta il controllo e la preoccupazione dei genitori verso i figli predominano sul contatto emotivo reale, sull’intimità e sulla sensibilità, finendo con l’ostacolare ogni iniziativa di autonomia del figlio (Bartholomew, 1984).
Infatti, si riscontra di frequente in queste famiglie un evitamento o un forte controllo di qualsiasi espressione emotiva; spesso i genitori ridefiniscono le emozioni con frasi come: “non fare così, non c’è da arrabbiarsi,…”, oppure “non piangere, bisogna essere forti,…” In tal modo ogni differenza viene appiattita, ogni emozione arginata e definita con un nome diverso così da dare un’immagine ideale e perfetta, ma dando contemporaneamente origine ad una grande confusione e ambiguità. Questo tipo di modalità di comunicare è stata subito sovrapposta alla “disconferma” propria della comunicazione psicotica (Selvini Palazzoli, Boscolo e Cecchin, 1977; Selvini Palazzoli, Cirillo e al., 1988). Tutte queste caratteristiche peculiari contribuiscono al mantenimento di un tipico circolo vizioso relazionale dove il processo di svincolo e quindi di crescita dei figli viene bloccato (Angrisani e De Pascale, 1981; Bruni e De Pascale, 1987).
Per quanto riguarda quindi il sistema familiare e relazionale, possiamo affermare che questa situazione altalenante esiste fin da quando il bambino inizia a costruire i primi rapporti familiari significativi. Già da allora il legame con le figure genitoriali si caratterizza per un’alternanza spesso imprevedibile e simultanea delle due polarità di attaccamento e di distacco (Bowlby, 1979). Questo dà luogo ad una forte ambiguità in merito alla possibilità di coinvolgimento emotivo e ad una situazione in cui decidere autonomamente risulta difficoltoso, dove è impossibile manifestare sentimenti personali ed emozioni e dove sono molto probabili i fraintendimenti, gli errori di valutazione e quindi le delusioni. “Nel momento in cui le spinte all’autonomia si fanno più forti e il disagio familiare aumenta, come spesso accade nella fase adolescenziale, il paziente tenta dunque una soluzione che in passato risolveva problemi simili: il sintomo finisce con l’essere contemporaneamente sia il tentativo di definire l’area di autonomia personale e di chiarire dunque le regole di relazione, sia lo strumento con cui il problema relazionale e la difficoltà di espressione e comunicazione dei propri sentimenti si perpetuano, con il mantenimento del sintomo stesso e con la ferma convinzione che manifestare le proprie emozioni esponga a una perdita di potere e alla critica” (A. De Pascale, 1991).
In questo ambiente familiare, dove ognuno ha difficoltà a comprendere ed esprimere le emozioni proprie ed altrui, la paziente si oppone a tutto ciò per costruirsi uno spazio personale, una sua autonomia, ma contemporaneamente nega la sua rabbia e la sua tristezza. Il suo disagio espresso attraverso un comportamento alimentare manifestamente provocatorio, unito alla trasformazione del suo corpo, se da un lato porta ad un’apparente posizione di tipo up, di controllo e autoaffermazione nella relazione con i familiari, dall’altro conduce a un’ulteriore conferma della sua posizione down, di dipendenza, disagio, solitudine e critica da parte di chi le sta intorno.
Articolo scritto da:
Dott.ssa Valentina Pericoli
Psicologa Psicoterapeuta